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APOCALYPSE "Si Vis Pacem, Para Bellum" (Vinyl Reissue, Recensione)


Full-length, Earth And Sky Productions
(2024)

Sapete di cosa mi lamento? Che non potrò mai e poi mai conoscere tutte le band, tutti i progetti, tutto quel che è inerente ai generi interni al reame del Metal che seguo con passione da svariati decenni: per quanto io sia sempre alla ricerca di materiale nuovo o alla riscoperta di gemme del passato, non riuscirò mai ad avere una visione veramente complessiva di ogni fenomeno, locale e globale. Sono un essere umano anch’io, dopotutto. Per fortuna che mi capitano sulla scrivania delle cosette da recensire: a volte bellissime, a volte un po’ meno, ma poco importa, io ascolto sempre ogni singolo lavoro e lo valuto secondo la mia sensibilità di ascoltatore ormai incallito, in primis, e poi come musicista compositore, ma solo in un secondo momento!

Ignoravo l’esistenza di una one-man band italiana, torinese, che ha omaggiato, in questo debutto del 2018, ora riproposto in vinile, il fondamentale, irripetibile, seminale progetto Bathory, uno dei veri, autentici precursori di qualsiasi cosa voglia dire Black Metal, e non solo: come ben sappiamo, stanco dell’immaginario lugubre dei suoi primi tre lavori, nel 1988 Quorthon decide di alzare il tiro, e di iniziare a parlare di mitologia scandinava, dell’Ásatrú, delle leggende che narrano di feroci e valorose divinità che combattono una guerra ciclica con giganti di brina o di fuoco, dove entità potentissime si scontrano con altrettanto potenti avversari ultraterreni azzerando tutto per ricominciare in un sorta di “eterno ritorno” nietzschiano su scala cosmica. Certo, molto, molto più suggestivo di qualche diavolaccio zoomorfo che si affaccia da una spelonca, giusto? Ora, uno sguardo alla copertina di questo debutto degli Apocalypse, e già dal dipinto in copertina, dal logo e perfino dalle foto promozionali del musicista coinvolto, che si fregia dell’appellativo di Erymanthon (non so se mi spiego!), ho subito capito dove si andava a parare: un omaggio dichiarato, a trent’anni esatti di distanza, da quel capolavoro e punto di svolta che è stato “Blood Fire Death”, al Bathory di quel sound di transizione che è rintracciabile nei brani “A Fine Day to Die” e “Blood Fire Death”, dove cioè Quorthon prende il suo Black Metal, le sue screaming vocals, che sono il suo marchio di fabbrica che tutti abbiamo imitato, e le inserisce in un contesto Epic Metal che qualcuno fece, forse non a torto, risalire ai Manowar.

Ora, per me “Under the Sign of the Black Mark” del 1987 rappresenta forse il primo, vero, inequivocabile disco ascrivibile al Black Metal in quanto genere a sé stante e compiutamente stilizzato ed estremizzato, cosa che nemmeno nei Celtic Frost avevamo in modo così esplicito. “Blood Fire Death” del 1988, invece, da una parte mantiene ancora un certo carattere sinistro, ma ne amplia a dismisura gli orizzonti e il fascino: è il punto in cui il Black Metal diede vita al Viking Metal, che in quel disco, e in questo, per analogia perfetta, si trovano ancora fusi insieme e in fase di mitosi. C’è tutto quel che si desidera da un tributo a quel progetto e a quel periodo particolare: le melodie epiche e cadenzate, le screaming vocals, ma anche i cori e il cantato maschile pulito e stonato, proprio come Quorthon: sei nel bel mezzo di una foresta, è inverno, i lupi ululano in lontananza e tu sei ferito, macchiando la candida neve di sangue scarlatto. No, non puoi cantare come Rob Halford, Ronnie James Dio o Bruce Dickinson: non avrebbe alcun senso! Stessa cosa vale per l’altra band estrema degli anni ‘80, i Voivod: tutto cantato fuori scala, ammesso che ci sia una scala musicale in quelle partiture, ma dopotutto lì eravamo sotto una tempesta radioattiva mentre carri armati colossali ci davano la caccia: con la sabbia negli occhi e la ruggine in gola, non possiamo se non cantare come Snake! Ma quello è un discorso diverso (ma non troppo!): torniamo a questo progetto italiano, che tanto mi rende felice, perché avevo già sbattuto la mia testa dura nei Gjallarhorn, romani, che rilasciarono un solo album, “Nordheim”, nel 2005, che si prefiggeva gli stessi obiettivi, e che non mancava certo il bersaglio, anzi! Non per fare “pubblicità comparativa”, che non è proprio il caso, ma secondo me Erymanthon porta il livello di adorazione verso Quorthon ad un livello ancora più elevato.

Non sono mai stato un grande sostenitore di “Hammerheart” o di “Twilight of the Gods”, ma solo perché lì l’elemento estremo veniva del tutto abbandonato e si espandeva a dismisura il ritorno ad un Epic Metal magniloquente, pur nel suo essere sempre fatto da un musicista con limiti tecnici e compositivi evidenti, malgrado le idee davvero rivoluzionarie. Ma anche in questo risiede la grandezza di Bathory: Apocalypse è prodotto e suonato senza dubbio con più precisione e consapevolezza, ma senza strafare, anzi: la scelta dei suoni è rispettosa di quanto sentito a fine anni ‘80, inizio ‘90, senza però scadere nel lo-fi o nell’ovattato ostentato.

Originalità? Zero, sotto zero, ma non serve a nulla, se già dichiari di avviare un progetto di tal genere: certo, c’è l’intelligenza di parlare della propria, di mitologia, quella greco-romana, ricalcando pari pari quanto fatto da quell’altro rievocatore delle gesta di Bathory, ovvero Alexandros Antoniou degli ellenici Macabre Omen: io ci vado matto per queste “tribute band”, che poi sono one-man band che omaggiano un’altra one-man band, forse la prima ad introdurre questo concetto nel mondo del Metal. Quindi niente, piove sul bagnato, io mi emoziono, perché un mio connazionale con un sacco di anni in meno di me, omaggia un artista che ha contribuito a formare i veterani come il sottoscritto! Bravo Erymanthon!

Recensore: LV-426
Voto: 8,5/10

Tracklist:

1. Tomorrow 
2. The Day of Sorrow 
3. Thunder, Blood and Fire 
4. Chant of Glory Eternal 
5. Soldiers of Rome 
6. Gloria et Mortem 
7. Si Vis Pacem, Para Bellum 
8. His Last Sunset

Line-up:
Erymanthon - Guitars, Vocals, Bass, Drum programming

Links:
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