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ALMA IRATA "Deliverance" (Recensione)

Full-length, Goodfellas 
(2016)

Bene, partiamo subito con la classica cenere sul capo: tra le influenze citate dagli Alma Irata figurano gruppi del calibro di Nemesi, Black Rainbows, Nahui... bene, confesso umilmente di non avere la minima idea di chi siano! L'età che avanza o la disillusione dell'età che avanza? Che dire... resta il fatto che – in maniera ben più rassicurante – la band si richiama sia a parole che nei fatti a certo alternative anni '90, e qui torniamo su lidi più rassicuranti, almeno per il sottoscritto.

Il quartetto romano è al debutto sulla lunga distanza (dopo l'EP “Errore di Sistema” rilasciato tre anni orsono) e ciò che emerge con forza dai solchi virtuali di “Deliverance” è proprio l'esperienza maturata sui palchi della Penisola in questi anni, che permette alle otto tracce presenti di suonare “live” e dirette proprio come ci si aspetta da una proposta simile. Già, la proposta... gli Alma Irata suonano un genere che personalmente descriverei come il punto di incontro tra tre filoni musicali ben distinti, spesso miscelati anche in passato da illustri predecessori: il grunge più “metallizzato” di Soundgarden e Stone Temple Pilots, quell'hard rock di matrice sleazy che altro non è che l'evoluzione di certo glam metal negli anni '90, e infine quella branca del punk melodico che una volta si chiamava emocore e che non ha nulla a che vedere con le frangette e la depressione andante, avendo dato i natali a realtà di peso come i Dag Nasty o gli Husker Du – con importanti derivazioni anche nel nostro Paese.

Se l'influenza del filone punkeggiante si percepisce chiaramente su pezzi come “Minimum Wage” (introdotta dal celebre quanto grottesco dialogo metalinguistico tra il Berlusca e Walker Bush all'epoca della Coalition Of The Willing), sono episodi come “Between Two Lines” a mostrare il lato più sleazy e stradaiolo della band, con importanti concessioni a quel sound “maturo” del genere che si era affermato con l'omonimo dei Motley Crue – per chi scrive, il migliore della loro discografia. 
Forse il singer Sander si mostra un po' monocorde in alcuni frangenti, non mancando però di ricordare in più punti il buon Shannon Hoon dei Blind Melon o l'icona Perry Farrell – “Perfect Lips” è emblematica in questo senso, dato che sono i Jane's Addiction ad aver realizzato nel tempo quel connubio di cui parlavo in apertura. Sicuramente ottimo il lavoro delle chitarre, mai invasive ma presenti quanto basta: vero perno delle tracks, come il genere comanda. Un plauso alla robusta “Crushed Bone” (vero emblema di un Seattle sound roccioso e oscuro) e ai due episodi finali, “The Ship” e “Viper Tongue”, con quest'ultima che ricorda i maestri Stone Temple Pilots – e non solo perché a tratti sembra una versione velocizzata di “Wicked Garden” (impossibile non citare i propri beniamini quando si fa un certo genere). 

Ascolto sicuramente consigliato a chi vive di certe sonorità; per quanto mi riguarda, attendo le prossime mosse della band, sperando che riesca a continuare sulla buona direzione intrapresa e a capitalizzare quanto di buono già sentito su “Deliverance” per un'evoluzione verso la maturità stilistica.

Recensione a cura di: schwarzfranz 
Voto: 75/100 

Tracklist:
1. Colac
2. Minimum Wage
3. Crushed Bones
4. Between Two Lines
5. Three Steps to Evil
6. Perfect Lips
7. Viper Tongue
8. The Ship

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